Testimonianza di Dario dal Centro Miriaka

La mia esperienza in Madagascar

Immaginate di dover ingabbiare l’aria prendendola con un cucchiaino. Sarebbe un compito arduo, per non dire surreale. Tale si presenta a me l’impresa di raccogliere emozioni, sensazioni, ricordi di un intero anno passato in Madagascar e riportarle su carta scritta. Ma non tutto quello che sembra impossibile poi in realtà lo è davvero. Proviamo a partire dal principio. 

Perché partire?

Partire è sempre la scelta migliore, quando dettata da curiosità, speranza e voglia di vivere. Se si affronta un viaggio, qualsiasi viaggio, con questi presupposti, che esso duri un giorno, un mese o un anno intero non sarà mai la scelta sbagliata. Contribuirà ad insegnarci che esiste altro oltre al nostro orto di casa, che esiste altro persino dentro noi stessi, e che solo lontano da casa è possibile scoprirlo. A ciò ognuno può aggiungere qualsiasi cosa: vedere posti lontani e meravigliosi; conoscere gente diversa dal solito; mangiare cibo strano; imparare una nuova lingua; sapersela cavare da sé; imparare cosa vuol dire avere nostalgia di casa persino! Io, personalmente, avevo questo e tanto altro nella mente quando ho deciso di partire per il Madagascar.

Che colore è la terra?

Provando a rileggere le pagine del diario che ho scritto quell’anno affiorano ricordi confusi ma incalzanti riguardo il periodo passato in Madagascar. Occorrono due interi giorni di viaggio per raggiungere la città di Fianarantsoa, nell’altopiano centrale dell’isola. Atterrati nella capitale Antananarivo si devono percorrere circa 500 km tra stradine di montagna e praterie sconfinate di terra rossa prima di arrivare nella zona delle risaie, delle sconfinate risaie, che costellano i piccoli centri abitati lungo la Route Nationale 7. Una volta giunti il paesaggio può apparire desolato. Quella zona è poco piovosa e il clima è abbastanza secco, soprattutto in  inverno. Questo significa che la vegetazione non è rigogliosa come i documentari ci indurrebbero a pensare. Escludendo i grandi parchi nazionali, la zona dell’altopiano centrale è stata disboscata fino a rendere grullo e desolato il paesaggio circostante. Ma questo non significa che la mano dell’uomo ha reso irriconoscibile il lavoro di madre natura. Si ha la percezione, anche in città, di essere immersi in un posto antico dove la natura è ancora padrona. 

Cos’è il senso del diverso?

La gente è molto curiosa. Essendo Fianarantsoa lontana dal mare, si può dire sia solo una città di passaggio, per cui la presenza di turisti è ridotta al minimo. Ciò significa che i “vasah”, gli stranieri, sono pochi e facilmente riconoscibili dalle persone. Ho avuto la percezione di essere una sorta di celebrità per tutta la durata della mia permanenza in città! Ovunque andassi, sia da solo che in compagnia degli altri compagni di avventura, c’era sempre qualcuno pronto a ricordarmi che fossi uno straniero. Ma non con cattiveria. Tutt’altro! La curiosità per il diverso è un tratto distintivo delle persone con cui sono entrato in contatto. Mi sono ritrovato spesso a parlare di qualsiasi cosa con chiunque per strada avesse voglia di fare due chiacchiere con me, e riuscisse a superare il timore iniziale di approcciarsi a un “diverso”. E posso assicurare che parlare il malgascio, lingua madre, piuttosto che il francese, lingua degli ex colonizzatori e ora dell’élite, è fondamentale per darsi una connotazione sociale nel panorama della città. 

Come vivono i malgasci?

Purtroppo il Madagascar è un paese povero. Troppo povero. La sua storia è tipica dei paesi che hanno affrontato una decolonizzazione calata dall’alto: il processo di indipendenza ha coinvolto principalmente le élite colte, le quali non sono riuscite a trasmettere nel resto della popolazione un sentimento di autodeterminazione sociale e nazionale capace di contrastare i colpi di coda di una colonizzazione durata secoli. Oggi il paese sembra essere economicamente in mano straniere per la maggior parte. Da quello che ho avuto modo di osservare, sebbene gli incarichi “pubblici” siano orgogliosamente nelle mani della popolazione malgascia, i veri motori economici sono di provenienza estera: francese o cinese per lo più. La maggior parte delle persone vive con poco. Tre pasti al giorno non sono assolutamente scontati per tutti, tutt’altro. Spesso ci si ritrova a mangiare del riso con qualche verdura o legume come unico condimento. Fa specie però, vedere parte della popolazione benestante tentare di imitare lo stile di vita occidentale, sia nell’abbigliamento sia nell’atteggiamento e nei modi di fare, esercitando una sorta di consumismo di facciata poco in linea con il contesto in cui si vive. 

Cosa c’è da fare?

Le condizioni di estremo disagio in cui versa gran parte della popolazione non devono però indurre nell’errore, ahimè molto comune, di ritenere il proprio aiuto, il proprio contributo come qualcosa di fondamentale e indispensabile. I processi di movimentazione sociale, di lotta alla povertà, all’analfabetismo, alla denutrizione ineriscono il tempo lungo della storia. Non si può pensare dall’oggi al domani che modi di fare, di pensare la propria vita e il proprio stare al mondo cambino solo perché qualcuno ci ha detto che essi sono “scorretti”. E non è detto nemmeno che lo siano. Quello che è fondamentale, a mio giudizio, è apportare il proprio contributo affinché esista realmente un processo di autodeterminazione. Se un bambino in Madagascar, come in qualsiasi altra parte del globo, non ha la possibilità di magiare a sufficienza, di ricevere un’istruzione, di apprendere alcune basilari norme igieniche, quel bambino diventerà un adulto inconsapevole, dedito alla sopravvivenza, che accetterà qualsiasi cosa possa procurargliela. 

È da poche e chiare stelle polari che deve essere guidato il contributo che si può e si deve dare a questa gente. Altrimenti il rischio è di cadere nella commiserazione dell’assistenzialismo, utile solo ad alleviare il peso delle contraddizioni tra due mondi che ci piomba addosso quando si vedono certe cose. E non si aiuta nessuno oltre noi stessi. 

E il centro Miaraka?

Miaraka vuol dire insieme. E questo è il punto importante. Il centro Miaraka è stato realizzato dall’Italia grazie al contributo di persone volenterose e si alimenta oggi come ieri grazie all’aiuto di persone volenterose. Ma non camminerebbe sulle proprie gambe se queste persone fossero solo italiane. Insieme vuol dire che tutti, malgasci e italiani, contribuiscono al raggiungimento del proprio scopo comune. Una casa famiglia dove bambini e ragazzi provenienti da famiglie in difficoltà e talvolta anche dalla strada, dormono, mangiano, studiano, giocano e crescono liberi da molte delle preoccupazione che loro coetanei sono costretti a subire. Educatori e lavoratori malgasci vengono ogni anno aiutati da volontari italiani per assicurare a questi bambini una vita serena e che permetta loro di diventare degli adulti consapevoli. 

Il contributo che mi sono trovato in prima persona a dare a questo progetto è stato vario, perché varie sono le attività e le necessità di una casa. Dal preparare la colazione all’accompagnare i bambini a scuola; dal misurare loro la febbre ad accompagnarli dal dottore; dal fare la spesa al mercato al seminare la verdura nell’orto; dal costruire un pollaio al tirare l’acqua dal pozzo; dal fare i compiti per la scuola all’organizzare seminari sull’igiene e sulla riproduzione; dall’andare allo stadio al partecipare alla festa dell’indipendenza. Il tutto, naturalmente, aiutato e assistito dalla supervisione dello staff del centro. C’è stato posto anche per le attività esterne al centro, di interscambio con altre associazioni o enti della città. Perché creare rete tra associazioni ed enti è vitale per qualsiasi iniziativa si voglia creare sul territorio. Insieme agli altri volontari ho insegnato italiano ad un gruppo di suore francescane e guidato un gruppo sportivo in una scuola per bambini sordo-muti (provate ad immaginare la difficoltà nel farlo!).

Quanto ci ho guadagnato?

Le possibilità sono davvero tante, limitate solo dal tempo e dall’energia che si riesce a spendere. Il feedback dei bambini è stata forse la gioia più grande che mi sono portato dietro da quest’esperienza. E che non smette di accompagnarmi a distanza di tempo. Seppure con la consapevolezza di non essere in grado di cambiare le cose, ho cercato di contribuire nel mio piccolo affinché le giornate di quei bambini, di quei ragazzi, fossero meno pesanti e più divertenti. La vita di ognuno di loro è difficile. Impensabile se paragonata ai loro coetanei nel nostro paese. Nei loro occhi di bambino si trova una maturità che non ho mai visto altrove. Una gioia di vivere che non si trova nei manuali di vita venduti nelle nostre librerie. E non è difficile per me ammettere che quello che ho guadagnato da questa esperienza è infinitamente più grande di ciò che penso di aver dato.

Dario

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